Il “Byôki” (la malattia), come ci rivela la formazione letterale della parola, comporta non solo dei disturbi di natura fisiologica, ma anche dei disturbi di natura psichica. Non sarebbe possibile perciò curare una malattia senza tener conto degli stress provenienti dalla vita del paziente, in altre parole, dal suo contesto familiare, ambientale ecc. Dietro tutto ciò che si manifesta nella forma, c’è sempre il non-forma che gioca un ruolo un fondamentale. Dietro un libro – un pensiero – che è stato scritto, ci sono molti pensieri che soggiacciono in modo non scritto, sviluppatisi al momento stesso della scrittura. All’ombra di opere che sono sopravvissute nel corso dei secoli, migliaia sono scomparse a causa di vari incidenti o perché caduti nell’oblio. Un libro deve essere letto anche tra le righe, un pensiero deve essere capito anche attraverso il non-detto ed è nella perfetta conoscenza dei sintomi che non rientrano nella sua definizione che si deve determinare uno Shô. Dietro le sintomatologie presentate da un malato, ci sono dei disturbi che non sono ancora affiorati allo stadio di sintomi, e dietro la sofferenza causata dalla malattia, ci sono nel paziente delle cose che lo addolorano, di cui per lui è difficile parlare. Ciò che sorregge il corpo visibile è lo spirito, che invece è invisibile. Ogni squilibrio a livello fisico è la manifestazione di una resistenza, a livello psichico e ambientale.
È assolutamente impossibile capire tutto di un essere umano, che è così complesso. Non potremmo avere la totale comprensione nemmeno della relazione più intima che ci sia, come per esempio con noi stessi. A maggior ragione nel caso di un terapeuta che, per quanto compassionevole possa essere, non riuscirà mai a capire la sofferenza di un malato come lui la capirebbe su di sé. In questo senso, ogni individuo è fondamentalmente un essere isolato. Ma è proprio perché esiste questa solitudine che esiste l’amore. In questo risiede uno dei tratti caratteristici della relazione umana. Quando, in una relazione umana, si instaura la fiducia tra due persone, non è solo perché esse si conoscono bene a vicenda. Il malato è qualcuno che si trova in una situazione in cui non è capito dalla sua cerchia. Non sapendo da solo cosa fare, il malato ha bisogno dell’aiuto delle persone che lo circondano, ma che a loro volta non sanno cosa devono fare per lui. In ciò il medico ha la sua ragion d’essere. Gli animali selvatici, in quanto a loro, non si ammalano, per il semplice motivo che, anche se capita loro di soffrire per motivi di salute, sanno perfettamente come far fronte alla malattia; e quando non ci riescono più, attendono la morte, semplicemente, non provando così alcun tormento. Più i mammiferi si evolvono, più si integrano in una vita sociale sviluppata e hanno bisogno della comprensione dei loro simili. Il malato è qualcuno che ha difficoltà ad adattarsi nell’ambiente sociale. Uno degli scopi della cura è fargli ritrovare le sue facoltà d’adattamento, e la bravura sta nel distinguerlo dal malato psichico, poiché quest’ultimo non ha bisogno di cure per mancanza d’adattamento.
La medicina occidentale, concentrando essenzialmente la sua attenzione sui disturbi d’adattamento di tipo organico, rischia di perdere di vista il malato, poiché il suo obiettivo principale è la cura della parte affetta. Se la medicina orientale si qualifica come la medicina del malato è perché, considerando le malattie come qualcosa di correlato a tutti i problemi d’adattamento della persona, percepisce, nei sintomi, gli sforzi che quest’ultima compie per guarirsi. La terapeutica, confidando nelle facoltà naturali dell’auto-guarigione, ha come obiettivo quello di contribuire a queste facoltà. Considerando anche la condizione psicologica del malato come una manifestazione della sua ricerca di guarigione, la medicina orientale dà una notevole importanza a quest’aspetto. Accogliere ogni segno sintomatico manifestato dal soggetto e prestare alle sue sofferenze un ascolto attento è così qualcosa che si traduce nelle quattro diagnosi di un medico che si interessa sinceramente al suo paziente e che cerca di capire la sua situazione. Questo è un elemento importante perché il malato possa fidarsi del proprio medico, ma la fiducia deriva anche dall’effetto che l’attitudine di fiducia del medico ha avuto nei confronti del malato. Il fatto di dare un’importanza particolare alla causa interna implica, da parte del Kanpô, la certezza che esista, nel malato stesso, una facoltà innata di auto-guarigione. La fiducia del paziente, inoltre, implica che egli riscopra, affidandosi al medico, la capacità delle proprie forze nel vincere la malattia.
Questa relazione stretta tra una persona e un’altra nella cura, come descritta da me sinora, è quello che la psicoterapia moderna considera come il punto fondamentale perché si compia la terapia tramite il colloquio. È sorprendente come la medicina orientale, 2000 anni fa, avesse già integrato quest’aspetto nelle cure mediche. Sì può tuttavia sostenere che se la medicina orientale ha in seguito vacillato a causa dell’influenza della medicina occidentale moderna è perché l’importanza dell’aspetto relazionale nella cura non è stata più contemplata. Penso che l’analisi sui quattro sistemi diagnostici del Kanpô dovrebbe condurci a ridare al Kanpô tutto il suo valore e che un riavvicinamento tra la medicina orientale e quella occidentale sarebbe la strada giusta.
In psicoterapia si insegna che l’azione della cura dipende in gran parte dalla comprensione che il terapeuta ha del paziente. Dal punto di vista terapeutico, infatti, la conoscenza che il soggetto ha di se stesso, e che esprime, attimo dopo attimo, sotto lo sguardo del terapeuta, ha un significato molto più importante del fatto che il terapeuta o il soggetto stesso abbia un’immagine precisa della patologia. E questa conoscenza che il paziente ha di se stesso non viene tanto dall’osservazione clinica che fa il terapeuta per avere una conoscenza obiettiva del suo caso quanto piuttosto dal fatto che il terapeuta cerchi di capire il paziente entrando in un rapporto di empatia con lui e stimolando il coinvolgimento. Credo che in questo risieda l’importanza dello Shô. Lo Shô corrisponde senza dubbio alle sintomatologie esposte dal soggetto, tuttavia non deriva dall’immagine fornita e obiettiva della patologia, bensì da ciò che il soggetto stesso ha espresso, istante dopo istante, sotto lo sguardo del terapeuta. È quindi impossibile per il medico determinare lo Shô senza aver avuto un colloquio con il paziente. Ciò che il medico ha capito, riguardo alla sintomatologia del paziente, instaurando un legame di empatia e coinvolgendo il paziente stesso, e non procedendo all’osservazione clinica del caso al fine di avere una conoscenza obiettiva, è ciò di cui il paziente ha preso consapevolezza, riguardo a se stesso, e che il terapeuta ha carpito. Lo Shô, in altre parole, corrisponde sia a quello che viene espresso dal paziente che a quello che il terapeuta capisce. Questa comprensione, inoltre, non avviene per pura cognizione, ma attraverso l’atto terapeutico medesimo.
Nel momento in cui non si va oltre la prescrizione farmaceutica che corrisponde allo Shô [”Oshô-Sôtaï”[1]] così come descritta nel “Shan-Gan Lun”, così come in questo testo lo Shô è designato direttamente dal nome di un farmaco, si tende a pensare che questo sia semplicemente un metodo per individuare i farmaci da prescrivere. Da qui, per qualcuno, deriva la concezione semplicistica che lo Shô sia una chiave adattata a un buco della serratura. L’idea che se si trova una chiave, adattata al malato, questa chiave porterà alla guarigione, non è per niente diversa dal modo di pensare della farmacologia occidentale. La teoria che ne deriva è che se non si riesce a trovare la chiave l’unica soluzione sarà di entrare per effrazione/scasso, tramite cioè un intervento chirurgico. Una visione di questo tipo, che dà troppa importanza ai farmaci e considera il medico come una figura centrale, ha negli ultimi tempi funzionato con un certo successo grazie all’effetto di suggestione che ha prodotto nelle cure mediche improntate sulla personalità del medico; ben presto tuttavia, trascinata nella politica commerciale a immagine dell’Occidente, ha scatenato danni provocati dall’abuso di farmaci e dalle malattie derivanti da questi ultimi.
”Oshô-Sôtaï”[1]
“O” è un’abbreviazione del termine “Yakuhô”: prescrizione, farmaco prescritto; “Shô” è la diagnosi a seguito dei sintomi presentati dal malato, che comporta la prescrizione di un farmaco; “Sôtaï” corrisponde al concetto di rapporto fra due cose – “Oshô-Sôtaï” è il principio terapeutico per il quale i farmaci devono essere prescritti in funzione dello Shô.
- Traduzione da “Shiatsu et Médecine Orientale” di Shizuto Masunaga
a cura di D. Gregoretti per Associazione Culturale Shen Dao
Bisogna ora soffermarsi sul concetto di Shô che, nella sua essenza, è una forma di conoscenza riguardante il soggetto, il cui obiettivo è la cura da parte del medico e che deriva da una classificazione di quello che il medico ha capito toccando con mano il caso del paziente. Benché, secondo il metodo praticato dal medico – Tôeki, Shin-Kyû o Shiatsu, si osservino delle differenze nel modo di classificare lo Shô, questi metodi terapeutici vanno sostanzialmente tutti nella direzione di condurre il malato, attraverso la comprensione – che il medico ha- della sua naturale capacità di auto-guarigione, per fargli prendere consapevolezza di questa capacità insita in lui. Ovvero, se il medico fa prendere consapevolezza al paziente che la guarigione del suo male è di competenza essenzialmente dalle sue stesse facoltà vitali, il paziente stesso, rendendosi conto che l’origine del suo male è dentro di lui, accetterà di vedere, nella sofferenza della malattia, uno sforzo compiuto dal suo organismo per tentare di correggere lo squilibrio e assumerà da quel momento in poi la responsabilità della propria vita, confidando pienamente nelle proprie risorse vitali. Il ruolo del medico perciò è di creare una condizione in grado di suscitare nel paziente, in modo auspicabile, una tale predisposizione di spirito. La prima cosa che il terapeuta deve fare quindi è di instaurare con il malato una relazione umana tale da fargli ritrovare nel prossimo la fiducia che aveva perso. Se tuttavia, quando si ripristina il rapporto di fiducia, il paziente viene sopraffatto dalla sua cerchia, si ritorna al punto di partenza. Così come un malato psichico, quando sembra guarito all’ospedale, si ammala nuovamente non appena ritorna nel suo ambiente sociale, il medico, nelle circostanze attuali del mondo in cui viviamo in cui ci sono solo infinite ragioni per sfornare malati, anche se fa del suo meglio per curarli, il medico si ritrova alla fine a non poter più raggiungere l’obiettivo essenziale che è quello della terapia medica. Nel sistema medico giapponese attuale, in cui più il numero di malati aumenta, più i medici guadagnano soldi, nessuno più si preoccupa della medicina preventiva, che non contribuisce a far guadagnare molti soldi. Quest’aspetto racchiude qualcosa di molto pregiudizievole per la nazione e che non farà altro che peggiorare la situazione patologia del paese. I medici dovrebbero ritrovare la loro missione iniziale che era al servizio del paese, ma ciò è possibile solo per coloro i quali sono stati istruiti a una concezione corretta della cura del medico intesa come cura della persona umana. Secondo il mio parere ciò dovrebbe essere possibile, mediando una cooperazione con la medicina occidentale che grazie a uno studio corretto del pensiero della medicina orientale sta in questi anni rimediando agli errori e ridando importanza alla medicina psicosomatica. Una tale cooperazione può essere possibile solo se presente una comprensione reciproca, e perché questa sussista, c’è bisogno che ognuna delle parti capisca esattamente le proprie peculiarità. Credo che correggere l’attuale deriva del sistema medico è uno dei compiti urgenti che la medicina orientale e quella occidentale devono imporsi.